IN MEMORIA DI EMMA (contenuto: femminicidio, violenza, parità)
La barbara soppressione di Emma Pezemo, studentessa camerunense dell’Università di Bologna, uccisa e smembrata per poi essere lasciata in un cassonetto, il primo di maggio di quest’anno, ad opera dell’uomo con il quale coltivava una relazione, induce l’ennesima riflessione circa l’evidente e degenerazione dei rapporti fra uomo e donna intervenuta nel nostro tempo.
Mentre gli omicidi commessi in Italia registrano di anno in anno un calo anno, i “femminicidi” -da intendersi nel significato tecnico di espressione dei “violenza estrema da parte dell’uomo contro la donna proprio perché donna”- sono in aumento proporzionale, tanto che nel 2020 l’incidenza di quella componente femminile rispetto al totale degli omicidi è stata del 40,6%, cioè la più alta di sempre.
Prima del 2001, l’unica parola esistente di significato analogo nel nostro ordinamento era “uxoricidio”; ma la radice latina uxor (moglie) limitava il significato del termine all’uccisione di una donna in quanto moglie; la coniatura del termine “femminicido” risalente al 2001 ha consentito, invece, di identificare l’uccisione di una donna proprio in quanto donna
L’80% dei femminicidi avviene in famiglia, sicchè le donne uccise sono vittima di una persona che conoscevano: nel 43 % dei casi è il partner, nel 29 % un parente (inclusi figli e genitori) e nell’8 % un’altra persona comunque conosciuta.
Nel 28% dei casi “noti”, le donne uccise avevano subito precedenti maltrattamenti.
Sono le donne tra i 25 e i 54 anni ad essere particolarmente interessate da questo fenomeno: i dati affermano che più della metà dei femminicidi, negli ultimi dieci anni, ha interessato donne appartenenti a questa fascia d’età, perlopiù giovani donne e madri ed il fenomeno, come il caso di Emma conferma, riguarda tutte le classi socio-culturali ed economiche, senza distinzioni di età, credo religioso o razza.
Tanto che l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha riconosciuto la violenza contro le donne come un grave problema di salute pubblica di dimensione globale, con una pesante ricaduta sul benessere psicologico e fisico delle donne.
Si tratta di una violenza a matrice fortemente psicologica ed ideologica, fortemente correlata al concetto di potere: il suo vero obiettivo non è esclusivamente quello di provocare dolore o sofferenza fisica alla donna, quanto piuttosto quello di sottometterla ed umiliarla, sino a sopprimerla laddove si ribelli.
Nel 1979, Lenore Walker, docente presso il Dipartimento di Psicologia Clinica a NSU (Nova Southeastern University) in Florida e studiosa di psicologia femminile ha descritto tre fasi della violenza di genere contro le donne.
La prima fase è quella in cui si accende la tensione tra i partner e che inizia attraverso una subdola violenza verbale. L’uomo violento manifesta un crescente nervosismo, un atteggiamento perennemente irritato, opaco e ambiguo che confonde la donna. Il distacco del partner è avvertito dalla donna come un potenziale segno di abbandono che la spinge ad evitare di contestare il proprio compagno od opporsi, assecondando ogni sua mossa ed ogni suo volere.
La seconda fase, improvvisamente, vede un’esplosione della violenza nelle forme più drammatiche.
La terza fase, infine, è caratterizzata in genere da una finta riappacificazione: l’uomo violento si riavvicina alla donna giurando pentimento e pronunciando scuse e parole d’amore a profusione, venendo prontamente perdonato e riaccolto.
Nei primi episodi di violenza, la fase della falsa riappacificazione dura generalmente più a lungo; al contrario, all’aumentare degli episodi violenti, la durata della riappacificazione si riduce e questa fase costituisce una sorta di rinforzo positivo per la donna, che con l’alternarsi di ogni fase diventa sempre più dipendente da questo meccanismo e sempre più bisognosa di questo legame, seppur malato, mentre l’uomo violento acquista sempre più potere all’interno della relazione di coppia.
Da questa analisi si trae conferma di quanto infarcimento psicologico intervenga a guidare la condotta del sopraffattore: la frustrazione, la consapevolezza inconscia della propria debolezza, una quota di viltà legata alla differenza delle forze fisiche in campo, sono tutti fattori di rischio per le donne più prossime a queste tipologie di uomini che le fanno divenire loro potenziali vittime elettive.
Fino a quando non si innesta l’impulsività che trasforma la ruvidezza cronicizzata ed il malumore a lungo covato ed agito nella cica rabbia che si estrinseca in comportamenti di attacco e di violenza espressa, spesso irrefrenabili.
L’innesco della violenza è spesso dato dal sentimento di abbandono che l’uomo avverte quando si rende conto che la “sua” donna vuole lasciarlo, separarsi da lui, costruirsi una vita indipendente o con un altro partner; questo timore produce un senso di disperazione, di piccolezza, di fallimento e solitudine.
Una rabbia “malata” che richiederebbe il contrappeso di un’appropriata regolazione, viceversa assente in chi la incarna: l’uomo che commette un femminicidio è un uomo che, soggiogato dalla propria rabbia, non è capace di governarla e di metterla al servizio di un contradditorio maturo e civile, sicchè la fa esplodere incontenibile, agendola sulla donna con violenza e crudeltà, talvolta efferatezza ed incomprensibile brutalità.
Si dirà: imprevedibile raptus, tempesta emotiva, confusione mentale, disperazione sentimentale, delusione progettuale e crollo del tasso d’autostima maschile.
Come uscire da questo stato di cose che pare aver assunto una inerzia irreversibile ?
Il solo quadro repressivo, benchè parzialmente disincentivante, non è sufficiente; la legge del 2019 introduttiva del cd. codice rosso, con tutto il corteo di inasprimenti procedurali e sanzionatori, non pare aver dato i frutti attesi.
Ed, allora, è il quadro culturale e sociale sul quale si deve intervenire.
La rimodulazione dei rapporti uomo-donna, divenuta più marcata a partire dagli anni ’70, ha probabilmente concorso a creare l’attuale stato di cose: forse è stato uno strappo troppo rapido, intervenuto in pochi lustri, dopo secoli di stabilità nei rapporti, basata su una tollerata disparità nel contesto dei rapporti sentimentali e famigliari.
Uno strappo che ha generato reazioni anomale in una fascia della popolazione maschile non ancora pronta ad accettarlo, adattandosi ad un diverso equilibrio che presupponeva una maturità di concetti e di consapevolezze che era abbastanza facile prevedere potessero mancare in taluni, invero non pochi.
Siamo, quindi, davanti ad un cambiamento culturale e sociale ed oggi sempre più si pone urgente una particolare attenzione al cosiddetto “stress fra i generi” e non soltanto a quello “di genere”, dovendo prendere atto che siamo diventati sempre più una società violenta perché siamo abituati al “tutto e subito” laddove il sacrificio ed il rispetto, anche di fronte ad atteggiamenti indesiderati nel nostro contraddittore, compresa certamente anche la donna che vive accanto a noi, sono concetti difficili da considerare.
D’altro canto, non possiamo negare -diversamente commettendo ancora altri errori- che esistano “differenze di genere”: ce lo ricorda la “Medicina di Genere” che, infatti, studia il modo in cui l’appartenenza al genere, maschile o femminile, condiziona lo sviluppo e l’impatto delle malattie e la risposta alle terapie, perché il genere, maschile e femminile, è palese condizionare ed in maniera determinante la risposta ai farmaci ed alle terapie e crea differenze anche nello sviluppo delle malattie, fisiche e mentali.
La Donna, concentrato di forza ed equilibrio, fin dalla notte dei tempi oggi si è parzialmente modificata, dovendo tenere spesso le redini non soltanto della famiglia, ma anche del lavoro, un doppio e rilevante impegno che richiede energie, efficienza e senso del dovere; nel contempo, la tensione alla parità verso l’Uomo l’ha in parte privata di quelle proprie note istintive così naturalmente capaci di mantenere gli equilibri e di evitare le lacerazioni.
Uomini più insicuri, Donne più consapevoli: ma non sempre i primi accettano questo stato di cose né le seconde sono capaci di rinunziare alla riaffermazione della parità nemmeno in contesti nei quali quell’atteggiamento non sarebbe affatto indice di debolezza o di nuovo arretramento dei costumi, ma piuttosto espressione di una saggezza profonda e radicale che è propria del genere femminile.
Una visione pragmatica della ripartizione dei ruoli nel complesso equilibrio dei rapporti fra uomini e donne è forse la strada da perseguire: un’analisi leale dei fattori di criticità venutisi a determinare nella nostra attualità, condotta senza condizionamenti ipocriti e legati ad una mentalità che non ha dato buoni frutti, come la lunga scia di sangue e le tante vite spezzate di giovani Donne ci rivelano.
La parità e l’equilibrio, reali e stabili, anche fra i generi, si conquistano soltanto guardando in faccia la realtà e confrontandocisi senza preconcetti, né retaggi culturali di epoche passate, fossero fatte di oscurantismo ma anche di slogan: è uno sforzo che dobbiamo fare senza perdere altro tempo, per ricordare Emma e con lei tutte le vittime dell’alienazione culturale che sta spegnendo la nostra società.
Avv. Gabriele Bordoni
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