LA DOPPIA CONFORME

Ufficiale galantuomo

“Doppia conforme”; la prima volta che sentii questa espressione mi parve attagliarsi ad un ambito gergale, a cavallo fra lo sport e l’erotismo.

Poi ne capii bene il significato e quando poi mi imbattei in quella ipotesi ne compresi ancor meglio l’insidiosità ed il carattere drasticamente selettivo che assegnava ai ricorsi per cassazione: dopo due gradi di merito andati male, il presentare doglianza alla Suprema Corte era regolato da un vaglio di ammissibilità ancor più esigente e draconiano che tendeva a spazzare via, senza nemmeno portarli in udienza di discussione, la più gran parte dei processi.

In sintesi, il vizio di travisamento della prova può essere dedotto solo quando l’errore sia idoneo a disarticolare l’intero ragionamento probatorio, rendendo illogica la motivazione per la essenziale forza dimostrativa del dato processuale o probatorio, ovvero quando entrambi i giudici del merito siano incorsi nel medesimo travisamento delle risultanze probatorie acquisite in maniera talmente macroscopica da far rilevare la non corrispondenza delle motivazioni di entrambe le sentenze di merito rispetto alle prove assunte ovvero sia stato per la prima volta introdotto come oggetto di valutazione nella motivazione del provvedimento di secondo grado: direi che basta leggere questa definizione della fattispecie che si accappona la pelle a chiunque debba affidare a questo terzo ed ultimo grado la propria sorte processuale.

Ed ecco che, da poco abilitato al patrocinio avanti la Corte, mi imbattei in questa ipotesi relativamente ad una vicenda molto complessa, giudicata in primo grado dal GUP Militare di Napoli e quindi, in appello, dalla Corte Militare di quella città -nella quale sedeva anche il Dott. Palazzi che ritrovai in seguito come contraddittore quale Procuratore Federale della FIGC- con esiti, appunto, infausti ed assai gravosi per il mio difeso, chiamato a rispondere -come Colonnello della GdF- di una trentina di peculati.

La prova a suo carico era costituita, da un lato, dalle affermazioni dei sottoposti (autori materiali delle distrazioni) che dicevano di avere operato con il suo benestare e, dall’altro, dalla logica ritrita del cd. “non poteva non sapere”; ai giudici di merito era bastata.

Per quell’uomo, militare vecchio stampo, quella “doppia conforme” aveva rappresentato la morte nel cuore; e così, uscendo sulla piazzetta a Pizzofalcone, appena sopra piazza del Plebiscito, dove allora sedeva la Corte d’Appello che ne aveva appena confermato la condanna (e che sarebbe stata soppressa di lì a poco), vidi nei suoi occhi lo smarrimento che sovrastava persino la rabbia, la delusione e la paura di quello che sarebbe potuto avvenire di seguito a quella condanna.

Mi stimava, ma io per primo avrei capito se avesse deciso di cambiare difesa: a volte, per ragioni arcane, è una opzione capace di sovvertire le sorti di un processo.

Invece, non ne volle sentire nemmeno parlare e, salutandomi in maniera formale e da militare -ma con la testa visibilmente altrove- mi disse che quando avessi avuto le motivazioni di quella sentenza ed avessi redatto il ricorso per Cassazione lo avrebbe letto volentieri, come aveva fatto sempre con tutti gli atti del processo.

Mi sentii gratificato da quelle parole…ma subito pensai che avrei dovuto allora battagliare con quel mostro a due teste, quelle due condanne convergenti che, integrandosi fra loro, divenivano un tutt’uno pressochè insuperabile.

Ma quello era e dovevo fare del mio meglio, nell’intesse del mio difeso che sapevo essere innocente, per lo sdegno verso chi si era assopito su una logica che reputavo semplicistica e superficiale ed anche per orgoglio personale.

Ci trovammo, mesi dopo, all’ingresso del “Palazzaccio” e salimmo insieme sino all’aula; lui poteva stare soltanto fra il pubblico, ma voleva esserci e ascoltare.

Ero teso come una corda di violino, sentendo su di me tutto il peso di quel momento e sapendo che una telefonata notturna dell’uscere che, di prassi, mi avrebbe riportato il dispositivo di sentenza, qualora fosse stato di inammissibilità (come le statistiche davano per quasi certo, nonostante fosse arrivato in udienza) o di rigetto, avrebbe determinato la fine della carriera e della libertà di quell’uomo.

Eravamo i quinti del ruolo, ma l’attesa fu breve: venne il mio turno, avanzai dissimulando il nervosismo che covava in me, ed appoggiai un paio di fogli sul tavolo, contenenti le poche annotazioni vergate in rosso che ritenevo utile rimarcare a voce.

Il Pg chiese il rigetto e, ricevuta la parola dal Presidente, a quel punto liberai la voce che vibrò decisa in quella grande sala così severa e formale (di certo coerente con lo stile del mio assistito), andando dritta ai punti più importanti del ricorso che rivelavano l’errore in diritto che ritenevo comune alle due sentenze; dieci minuti e, prima di venire invitato alla conclusione (anche se quella volta non vedevo nel Collegio segni premonitori in quel senso), mi tacqui spontaneamente e mi commiatai.

Ripartimmo in treno, io scendendo a Bologna e lui proseguendo per una città del nord dove era allora a comandare; “lei ha fatto il massimo, quello che ha detto è la verità; poi, se non la vogliono ascoltare, è altra storia” mi disse, con fare risoluto.

Lo salutai con un ultimo cenno una volta sceso dalla carrozza e cominciai da quel momento a concentrare la mia attenzione, quasi maniacale, al mio cellulare, in attesa che giungesse quella telefonata da Roma. Ero stanco e pensieroso.

Poco dopo le 23, quindi dopo un bel po’ di tempo, finalmente il portatile vibrò nel taschino della mia giacca: “è la Cassazione…ricorso n° 5, annulla con rinvio alla Corte d’Appello Militare di Roma. Buonasera avvocà”.

Per un minuto rimasi immobile, in bilico fra una sorta di esaltazione mistica ed il crollo emotivo: poi mi ripresi perché era lui che doveva saperlo, lui che stava più di tutti in trepida e dolorosa angustia; “è andata Colonnello, annullata. Rifaremo l’appello a Roma, ce l’abbiamo fatta”.

Anche lui rimase in silenzio, ma solo qualche istante, poi con il cipiglio di chi comanda ed è abituato a modi spicci “molto bene avvocato, ne ero certo”…mentendo a se stesso prima che a me, perché lui era certo del fatto suo, ma di quello che avrebbero deciso quegli ultimi Giudici, dopo due salassi come aveva subito,  un po’ meno.

Il giudizio di rinvio venne celebrato circa un anno dopo, sempre a Roma ma dall’altra parte del Tevere, alla Corte Militare, in un elegante palazzo nel quale restammo in attesa del nostro turno parecchie ore; ma questa volta ci sentivamo noi imbattibili.

Infatti, nonostante il valore dell’Accusatore che cercò di superare le lacune nelle contestazioni che avevo messo in luce, la Corte riformò la decisione di primo grado e assolse integralmente il Colonnello da tutte le imputazioni.

Prima di uscire, finalmente sollevati entrambi ed euforici, ci imbattemmo nel Presidente del Collegio che, letto il nostro dispositivo, era uscito in pausa per andarsi a prendere un caffè con gli altri componenti della Corte, togati e militari.

Con aria affabile e gentile, mi si fece incontro ed io pure verso di lui, stendendogli la mano per un cordiale saluto; il mio difeso, educatamente e secondo protocollo, restò a distanza, ma potè udire le parole che mi vennero rivolte: “se lo lasci dire da un vecchio Magistrato: lei ha stoffa, unisce agli argomenti la grinta e lo stile”.

Sorrisi, quasi commosso; alla fine, almeno quella volta, la doppia conforme l’avevo proprio esorcizzata.

Avv. Gabriele Bordoni

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