Anomalie del sistema
Quando si afferma che summus jus, summa injuria, non si afferma qualcosa di astratto, perché sin troppo di frequente l’applicazione rigorosa della legge conduce a mostruosità.
In questo caso, mi riferisco al vincolo che grava sul giudice del rinvio dopo che la Corte di Legittimità ne ha annullato la precedente decisione; norma imperativa, l’art. 627 c.p.p. che non lascia margini, nemmeno potendo incidere la circostanza che, nelle more del rinvio al giudice di merito, la stessa Cassazione abbuia mutato atteggiamento, magari pronunziando sul tema dibattuto a Collegio allargato e così cristallizzando il cd. diritto vivente.
La vicenda è questa: la Suprema Corte ha annullato l’ordinanza del Tribunale di Bologna, sezione Riesame, impugnata dal Pubblico Ministero, rinviando allo stesso Tribunale gli atti per nuovo esame in materia di sequestro preventivo.
La Giurisprudenza sul punto controverso sul quale ancora si discute è altalenante.
Il Tribunale di Bologna, Sezione Riesame, disponendo la revoca del sequestro preventivo antecedentemente imposto dal Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Bologna su tutti i beni dell’indagato, ha affermato che «allo stato risulta doveroso aderire qui ad un orientamento prevalente che risalendo alle più elastiche indicazioni di metodo della citata sentenza «Focarelli»- imponeva ne caso di specie al Pubblico Ministero di investire in prima battuta, eseguendo il decreto di sequestro preventivo, i conti correnti della fallita società» (cfr. ordinanza n. 112/19 R.I.M.C. sequestri, pp. 7-8) di fatto recependo l’insegnamento della Suprema Corte, secondo il quale il sequestro preventivo finalizzato alla confisca, diretta o per equivalente, del profitto dei reati tributari ex art. 12-bis, c. 1 d.lgs. 74/2000 «prevale sui diritti di credito vantati sul medesimo bene per effetto della ammissione al concordato preventivo, attesa l’obbligatorietà della misura ablatoria alla cui salvaguardia è finalizzato il sequestro. (In motivazione, la Corte ha osservato che il rapporto tra il vincolo imposto dall’apertura della procedura concorsuale e quello discendente dal sequestro, avente ad oggetto un bene di cui sia obbligatoria la confisca, deve essere risolto a favore della seconda misura, prevalendo sull’interesse dei creditori l’esigenza di inibire l’utilizzazione di un bene intrinsecamente e oggettivamente “pericoloso”, in vista della sua definitiva acquisizione da parte dello Stato)» (Cassazione penale sez. III, 09/02/2017, n.28077).
Sennonché, la Corte Suprema di Cassazione -condividendo quanto sostenuto nel ricorso presentato contro quella decisione dal Pubblico Ministero- ha inteso discostarsi da quei principi, aderendo, invece, a quell’orientamento ermeneutico speculare secondo cui la procedura fallimentare deve essere intesa come soggetto terzo, quindi, ente totalmente diverso dalla società, poiché il sequestro era intervenuto in epoca successiva rispetto al fallimento.
Si tratta di un orientamento che privilegia la peculiare natura dell’atto attivo fallimentare, facendola assurgere ad ostacolo all’applicabilità dell’art. 12-bis del d.lgs. 74 del 2000, considerando la disponibilità dei beni appresi dalla procedura fallimentare come assorbente, trattandosi di un soggetto terzo, rispetto alla titolarità formale del diritto di proprietà in capo all’indagato, che tuttavia è stato privato del potere di fatto sui medesimi beni, tanto che si legge «il vincolo apposto a seguito della dichiarazione di fallimento importa lo spossessamento e il venir meno del potere di disporre del proprio patrimonio in capo al fallito, attribuendo invece al curatore il compito di gestire tale patrimonio in capo al fallito, attribuendo invece al curatore il compito di gestire tale patrimonio al fine di evitarne il depauperamento»; ritenendo che la sentenza «Sez. U., n. 45936 del 26/09/2019, fallimento di Mantova Petroli Srl in liquidazione, Rv. 277257) (…) ha dato per acquisita l’esclusione della possibilità di eseguire il sequestro su beni appartenenti alla massa fallimentare» (cfr. sentenza 14766/2020, in atti).
In verità, annullando l’ordinanza del Tribunale di Bologna, la Corte si è limitata ad affermare che la tesi patrocinata «è stata, da ultimo, implicitamente fatta propria da Sez. u., n. 45936 del 26/09/2019, fallimento di Mantova Petroli Srl in liquidazione», così ammettendo che, in verità, più che un principio di diritto espresso dalle Sezioni Unite, si sia trattato di un principio, al più, evinto dalla Sezione competente.
Dunque, in mancanza di un intervento risolutore del Collegio allargato, si consideri che più di recente, sempre la Suprema Corte nella sentenza n. 15776 del 25.5.2020, ha ritenuto utile fornire una sorta interpretazione “autentica” anche e proprio di quella pronuncia delle Sezioni Unite sopracitata.
Nella motivazione, infatti, innanzitutto si evidenzia come, in realtà, tra i due orientamenti formati in tema di rapporti tra procedura concorsuali e sequestro penale, sussista un punto di convergenza, certamente rinvenibile laddove si ritiene la prevalenza del sequestro preventivo allorquando «intervenuto precedentemente alla dichiarazione di fallimento della società, per cui il dissenso interpretativo investe essenzialmente il caso in cui, come nella vicenda in esame, la dichiarazione di fallimento sia intervenuta prima del sequestro. Ritiene tuttavia il Collegio che la sequenza temporale tra i due vincoli in realtà non sia un aspetto di per sé dirimente, e ciò proprio in considerazione del differente ambito operativo tra la procedura concorsuale e la misura cautelare reale (…)» (Cass. pen. 25.5.2020, n. 15776).
Inoltre, riferendosi alla pronuncia n. 45936/2019 delle Sezioni Unite, la Suprema Corte afferma che il «riconoscimento in capo al curatore della legittimazione all’impugnazione dei provvedimento impositivi di cautele reali non vale tuttavia ad alterare l’assetto dei rapporti tra procedura fallimentare e sequestro penale, dovendosi cioè ribadire che la misura ablatoria reale, in virtù del suo carattere obbligatorio, da riconoscere sia alla confisca diretta che a quella per equivalente, è destinata a prevalere su eventuali diritti di credito gravanti sul medesimo bene, a prescindere dal momento in cui intervenga la dichiarazione di fallimento, non potendosi attribuire alla procedura concorsuale che intervenga prima del sequestro effetti preclusivi rispetto all’operatività della cautela reale disposta nel rispetto dei requisiti di legge, e ciò a maggior ragione nell’ottica della finalità evidentemente sanzionatoria perseguita dalla confisca espressamente prevista in tema di reati tributari, quale strumento volto a ristabilire l’equilibrio economico alterato dal reato»; aggiungendo come «unico limite all’operatività della confisca diretta o per equivalente, per come desumibile dal tenore letterale dell’art. 12 bis del d.lgs. n. 74 del 2000, è dunque soltanto l’eventuale appartenenza del bene a persona estranea al reato» (Cass. pen. 25.5.2020, n. 15776).
Questo il diritto per come avrebbe dovuto essere applicato anche al caso in esame; tuttavia, posto che, come detto, anche in materia cautelare, il Giudice del rinvio ex art. 627 c.p.p. è vincolato al principio di diritto affermato dalla Corte di Cassazione, l’esito del giudizio si rivelava scontato quanto palesemente errato, discostandosi dall’orientamento corretto assunto dalla stessa sezione della Suprema Corte dopo che aveva, malamente, deciso il caso specifico.
Difficile far capire all’interessato che anche questo è diritto e che tutto risponde alla lettera della legge: dunque, summus jus, summa iniuria.
Avv. Gabriele Bordoni
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