IL CONFINE FRA PECULATO E MALA GESTIONE CONTABILE

Il confine fra peculato e mala gestio contabile

È frequente l’avvio di indagini per peculato, a fronte di mera inadeguatezza contabile da parte del soggetto tenuto alla gestione del denaro, sia esso pubblico in senso stretto ovvero riferito ad una gestione patrimoniale privata, ma sottoposta alle regole della tutela, curatela o amministrazione di sostegno.

Applicando i concetti tipici della bancarotta per distrazione -laddove si opera una sorta di inversione dell’onere della prova, addossandolo all’imprenditore fallito che deve così dimostrare la destinazione delle somme che non risultano correttamente annotate come uscita- a fronte di apparenti ammanchi di cassa ad opera dell’agente qualificato (pubblico ufficiale o incaricato di un pubblico servizio, da intendersi nella gamma estesa sopra cennata), viene contestato il reato di peculato, previsto e punito dall’art. 314 c.p., portante una trattamento sanzionatorio draconiano.

Per cercare di chiarire quanto spesso sia sottile il confine fra quel reato e la mera cattiva gestione contabile (che, ovviamente, non integra detta violazione, ma comporta soltanto responsabilità a fini civili ed eventualmente disciplinari od erariali) si richiama una vicenda seguita dallo Studio.

L’imputato era chiamato a giustificare un preteso disavanzo contabile di circa 45 mila euro relativo alla gestione delle economie della beneficiaria, essendone A.d.S. e quindi P.U., muovendosi al riguardo rilievo a titolo di peculato.

Il Tribunale, a fronte della protesta di innocenza dell’interessato che assumeva di avere sempre agito con rettitudine, spiegando anche come avesse operato progressive compensazioni fra il conto corrente dell’amministrata ed il proprio, magari peccando sul piano dell’ordine contabile e di rendicontazione, rilevava che “dei vaglia postali menzionati nelle affermazioni difensive non v’è traccia -ed è implausibile che l’amministratore, tenuto ad una scrupolosa rendicontazione, non abbia tenuto la prova documentale- e che una transazione\accordo, del tutto privato, con l’erede del patrimonio dell’assistita non può sostituire la prova contabile riguardo la pregressa gestione di detto patrimonio” muovendo una censura più di tipo organizzativo che legata al disvalore penale del fatto volontariamente appropriativo.

Inoltre, pur avendo dato atto delle palesi lacune nell’analisi condotta dalla G.d.F. delegata, a fronte delle critiche tecniche mosse al riguardo dal consulente tecnico della difesa -che evidenziavano incongruenze tra i dati consuntivi e stimati, avendo omesso gli Operanti di considerare, fra l’altro, le spese legate ad alimentari, tabacco, cellulare ed assistenza domestica), osservava il Collegio che “il consulente non ha considerato che per gran parte dell’anno 2018 la beneficiaria era stata ricoverata presso strutture assistenziali, ove l’amministratore non doveva provvedere, documentato il pagamento della retta e di eventuali extra, a spese di mantenimento quotidiane, né la signora era esposta a richieste di profittatori, riguardo le quali peraltro la funzione dell’amministratore è quella di evitare spoliazioni”, concludendo che le restanti risultanze istruttorie, portate a discarico, non inficiavano l’approdo di conferma probatoria della tesi accusatoria.

Infine, nonostante le testimoni (una assistente sociale e l’infermiera che seguiva la donna sottoposta ad AdS) avessero dato atto degli aspetti di complessità della gestione della predetta e della collaborazione da sempre a loro prestata dall’amministratore di sostegno, riportando in particolare le difficoltà legate alle richieste compulsive di denaro avanzate dalla donna che spesso lo utilizzava per ospitare persone che la raggiravano, nonché le problematiche legate alla opposizione della signora a progetti di assistenza, l’Estensore riteneva che “tali accertate difficoltà e la gravosità dell’incarico non intaccano il rilievo circa il consapevole ricorso a fini personali del patrimonio dell’amministrata”, un ricorso la cui destinazione egoistica non era stata dimostrata in alcun modo.

Di contro, tralasciava di considerare il Collegio che la rendicontazione della gestione dell’imputato negli otto anni precedenti a quello oggetto di rilievo (si era acquisito tutto il carteggio appositamente) si era sempre presentata del tutto analogamente a quella afferente all’anno 2018, sia per una certa approssimazione contabile, sia per carenza allegativa dei giustificativi; eppure, al riguardo era sempre intervenuta l’approvazione piena da parte dei Giudici Tutelari che si erano susseguiti nella funzione.
Soltanto con la morte della beneficiaria, muovendo rilievi gli eredi della donna verso l’Ufficio Tutele, era stata richiesta giustificazione integrativa all’imputato soltanto per l’ultimo anno e questi l’aveva data, spiegando bene le cause di certe apparenti anomalie e dando atto anche delle proprie difficoltà, legate in parte all’età, in parte alle carenze metodologiche dell’imputato (pressochè digiuno di contabilità e rendicontazione) ed in parte all’incontenibilità della amministrata.

Tuttavia, era partita la segnalazione alla Procura e si era arrivati alla contestazione sulla base di un progressivo aggiustamento della somma oggetto di pretesa appropriazione, indicata su basi talmente approssimative, poco solide ed affidabili, da dover essere rivista nell’ammontare ancora in sede dibattimentale ed a fronte di corretto rilievo ad opera dello stesso P.M. che, proprio avendo rilevato la lacunosità manifesta delle prove raccolte e tenuto conto altresì delle risultanze dibattimentali, aveva infine richiesto l’assoluzione dell’imputato.

Quella era la soluzione corretta del processo posto che -a fronte di una iniziale approssimativa suggestione, legata ad un apparente difetto di giustificazione di una somma facente capo all’amministrata (al postutto contenibile in meno di ventimila euro)- si erano raccolte indicazioni tecniche dal CT qualificato, unite a spiegazioni logiche e credibili da parte dell’imputato ed a racconti chiarificatori da chi professionalmente seguiva la donna e si era messa in luce la circostanza che identici resoconti redatti dall’AdS per il GT erano stati sempre approvati senza rilievi di sorta negli anni passati; insorgenze idonee queste, complessivamente, a rendere quanto meno dubbia la sussistenza del reato.

Inoltre -questo è il dato dirimente- si doveva considerare la corretta distribuzione dell’onere della prova in materia, senza sovvertirlo, ponendo a carico dell’imputato l’esigenza di provare di non avere sottratto denari alla beneficiaria; al riguardo, nella sentenza Cass. Sez. 6, n. 21166 del 9/4/2019, Marino, Rv. 276067, si legge che «la incompletezza o l’inadeguatezza della rendicontazione delle spese operate dal pubblico ufficiale potrebbero servire a ritenere configurabile una responsabilità di natura amministrativa e contabile del pubblico ufficiale, ma non possono valere, da sole, ad integrare una responsabilità penale dell’agente per peculato che necessita della prova della concreta appropriazione del denaro, cioè della sua destinazione a finalità privatistiche; con la conseguenza che l’illecita interversione del possesso del denaro rilevante penalmente, lungi dal poter essere desunta da mere irregolarità o incompletezze nella formazione di documenti giustificativi delle relative spese, potrebbe considerarsi indirettamente provata in sede penale solamente da “situazioni altamente significative”, quali la totale mancanza di atti che permettano di collegare l’impiego del denaro alle funzioni istituzionali ovvero la sistematica elusione di specifiche regole disciplinanti le modalità di adempimento dell’obbligo di rendicontazione: situazioni che, nel caso di specie, sono pacificamente assenti, tenuto conto che “giustificativi delle spese” erano stati presentati».

Dunque, fatti salvi casi particolari in cui l’imputato ha l’onere di provare fatti processuali, non riferibili alla responsabilità per il reato (come nelle ipotesi disciplinate dagli artt. 175 e 420-bis cod. proc. pen.) la regola per cui è la pubblica accusa che ha l’onere di provare l’esistenza degli elementi costitutivi di ciascuna fattispecie penale è ineludibile, in quanto espressione dello statuto costituzionale del giudizio penale fondato sulla presunzione di non colpevolezza prevista dall’art. 27, comma 2, Cost.: regola che non può essere declinata solamente in termini di riconoscimento di un dovere deontologico in capo al rappresentante della pubblica accusa, ma che concretizza un insuperabile criterio processuale di valutazione della prova penale e, perciò, un canone basilare nella valutazione della legittimità del relativo giudizio.

In questa ottica, va rilevato come nella motivazione della sentenza impugnata sia riconoscibile un procedimento argomentativo basato su una evidente forzatura logico-giuridica, che si è tradotta, in pratica, in una violazione di quella fondamentale regola di civiltà giuridica dovendosi concludere che le regole di distribuzione dell’onere della prova non sono state applicate correttamente.

Invero, la decisione sottoposta a censura sconta una evidente confusione di principio (e, conseguentemente, nella applicazione concreta) tra responsabilità contabile e responsabilità penale sotto due profili: applica per la seconda le regole di prova della prima e, sostanzialmente, ritiene che sussistendo la prima sussista sempre la seconda, poiché non considera che non tutte le vicende giuridicamente rilevanti hanno necessariamente una colorazione penale per le peculiarità proprie del diritto penale rispetto ad altre branche del diritto.

Quanto alle regole probatorie, a parte ciò che si è già detto sulla «fondamentale regola di civiltà giuridica» dell’onere della prova nel processo penale, basterebbe rammentare come la responsabilità contabile sia sostanzialmente assimilabile alla responsabilità contrattuale del diritto civile e la responsabilità penale alla responsabilità extra contrattuale con la notoria diversità di onere della prova.

Di conseguenza, proseguendo sull’argomento, al riguardo può essere utile richiamare quanto espresso di recente da Cassazione penale, Sez. 6, nella sentenza n. 7329/2025, laddove ha ribadito, in accordo alla costante giurisprudenza di legittimità, che la regola di giudizio compendiata nella formula “al di là di ogni ragionevole dubbio”, di cui all’art. 533, comma 1, cod. proc. pen., consente di pronunciare sentenza di condanna a condizione che il dato probatorio acquisito lasci fuori soltanto ricostruzioni alternative costituenti eventualità remote, pur astrattamente formulabili e prospettabili come possibili in rerum natura, ma la cui effettiva realizzazione, nella fattispecie concreta, risulti priva del benché minimo riscontro nelle emergenze processuali, ponendosi al di fuori dell’ordine naturale delle cose e della normale razionalità umana (Sez. 3, n. 5602 del 21/1/2021, Rv. 281647; Sez. 5, n. 1282 del 12/11/2018, dep. 2019, Rv. 275299; Sez. 1, n. 17921 del 03/03/2010, Rv. 247449).

Le Sezioni unite hanno, infatti, statuito che il canone dell’oltre ogni ragionevole dubbio, per la sua immediata derivazione dal principio della presunzione di innocenza, esplica i suoi effetti conformativi non solo sull’applicazione delle regole di giudizio, ma anche, e più in generale, sui metodi di accertamento del fatto, imponendo protocolli logici del tutto diversi in tema di valutazione delle prove e delle contrapposte ipotesi ricostruttive in ordine alla fondatezza del tema d’accusa: la certezza della colpevolezza per la pronuncia di condanna, il dubbio originato dalla mera plausibilità processuale di una ricostruzione alternativa del fatto per l’assoluzione (Sez. U, n. 14800 del 21/12/2017, dep. 2018, Troise, Rv. 272430, in motivazione).

Si tratta, dunque, sia di una regola di giudizio, che definisce lo standard probatorio necessario per pervenire alla condanna dell’imputato, escludendo l’utilizzabilità di criteri alternativi di giudizio, quali “la consistente verosimiglianza” o la forte plausibilità” della ricostruzione adottata, sia di un metodo dialettico di accertamento del fatto, che obbliga il giudice a sottoporre, nella valutazione delle prove, la tesi accusatoria alle confutazioni costituite dalle ricostruzioni antagoniste prospettate dalle difese (cfr. Sez. 6, n. 45506 del 27/04/2023, Rv. 285548 – 15; Sez. 1, n. 41110 del 24/10/2011, Rv. 251507).
Sul giudice grava, dunque, l’onere di individuare gli elementi di conferma dell’ipotesi accusatoria accolta, in modo da far risultare la non razionalità del dubbio derivante dalla prospettazione alternativa, non potendo detto dubbio fondarsi su un’ipotesi del tutto congetturale, seppure plausibile (cfr. Sez. 6, n. 10093 del 5/12/2018, dep. 2019, Rv. 275290; Sez. 4, n. 22257 del 25/3/2014, Rv. 259204).

In questo articolato contesto, la regola di giudizio dell’oltre ogni ragionevole dubbio pretende percorsi epistemologicamente corretti, argomentazioni motivate circa le opzioni valutative della prova, giustificazione razionale della decisione, standard conclusivi di alta probabilità logica in termini di certezza processuale, essendo indiscutibile che il diritto alla prova, come espressione del diritto di difesa, estende il suo ambito fino a comprendere il diritto delle parti ad una valutazione legale, completa e razionale della prova.

Si è, inoltre, chiarito, con riferimento alla valutazione della prova indiziaria, che il giudice di merito non può limitarsi ad una valutazione atomistica e parcellizzata degli indizi, né procedere ad una mera sommatoria di questi ultimi, ma deve, preliminarmente, valutare i singoli elementi indiziari per verificarne la certezza (nel senso che deve trattarsi di fatti realmente esistenti e non solo verosimili o supposti) e l’intrinseca valenza dimostrativa (di norma solo possibilistica), e, successivamente, procedere ad un esame globale degli elementi certi, per accertare se la relativa ambiguità di ciascuno di essi, isolatamente considerato, possa risolversi, sulla base di una visione unitaria, consentendo di attribuire il reato all’imputato al di là di ogni ragionevole dubbio e, cioè, con un alto grado di credibilità razionale, sussistente anche qualora le ipotesi alternative, pur astrattamente formulabili, siano prive di qualsiasi concreto riscontro nelle risultanze processuali ed estranee all’ordine naturale delle cose e della normale razionalità umana (Sez. U, n. 6682 del 4 febbraio 1992, Musumeci, Rv. 191231; Sez. 1, n. 8863 del 18/11/2020, dep. 2021, Rv. 280605 – 02).

La regola di giudizio, oltre che probatoria, di certezza processuale codificata all’art. 533 cod. proc. pen., muovendo dai capisaldi del processo penale accusatorio della presunzione di non colpevolezza e dell’onere della prova gravante sulla pubblica accusa, impone al giudice di verificare il tasso di univocità degli elementi probatori agli atti e la concreta sostenibilità, sulla base di quanto acquisito nell’istruttoria e delle regole della logica razionale, di diverse ricostruzioni fattuali idonee a indurre un ragionevole dubbio sulla colpevolezza dell’imputato.

Orbene, applicando questi principi basilari al caso di specie, la conclusione assolutoria si rivela, pertanto, essere l’unica in concreto praticabile secondo diritto e giustizia, sia essa basata sulla incompletezza di prova circa la stessa sussistenza del disavanzo, sia almeno per l’assenza di dolo da parte dell’imputato, magari maldestro come contabile, ma certamente non disonesto.

Avv. Gabriele Bordoni

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